martedì 16 gennaio 2024

16 gennaio 2006, Ellen Johnson Sirleaf è la prima donna capo di Stato in Africa

Il 16 gennaio 2006 quando Ellen Johnson Sirleaf assunse i poteri di Presidente e Capo dello Stato in Liberia, fu decisamente una data storica per l'Africa e per il nostro Mondo. Si trattava infatti della prima donna della storia ad essere Capo dello Stato in un Paese africano


La Johnson-Sirleaf, economista e imprenditrice, è nata nel 1938 a Monrovia, la capitale della Liberia ed è stata Presidente dal 2006 al 2018.

Nel 2011 ha vinto, assiema a Tawakkul Karman e Leymah Gbowee, il Premio Nobel per la Pace "per la battaglia non violenta a favore della sicurezza delle donne e dei loro diritti".

Una delle prime azioni di governo di Ellen Johnson è stata quella, nel 2007, di rendere obbligatoria e gratuita l'educazione primaria per ogni bambino della Liberia.

La Johnson è stata protagonista privilegiata di una delle più sanguinose guerre civili (e forse la meno raccontata e conosciuta), quella che ha visto protagonista il criminale (condannato dalla Corte Internazionale a 50 anni di reclusione per crimini contro l'umanità), Charles Taylor che dal 1989 al 1997 insanguinò il Paese.

Per conoscere meglio la storia di Ellen Johnson Sirleaf, consiglio la lettura di "Un giorno sarai grande", scritto da lei e pubblicato nel 2012 da Add Editore, dedicato a "alla memoria delle innumerevoli donne il cui impegno e sacrificio non sarà mai riconosciuto, ma che  con le loro battaglie private e silenziose, hanno contribuito a lasciare un'impronta profonda e silenziosa nel mondo".

lunedì 16 agosto 2021

15-17 agosto 1969, Woodstock... il festival

La Fiera della Musica e delle Arti di Woodstock è sicuramente uno tra gli eventi musicali mondiali che saranno ricordati per sempre. 


Nella piccola città di Bethel, nello stato di New York, si tenne quello che originariamente doveva essere un festival di provincia e che divenne un evento che richiamò ufficialmente 500 mila persone a fronte di 168 mila biglietti venduti (sebbene stime, non ufficiali, arrivarono perfino a contare un milione di persone).  Nel bel mezzo della diffusione della cultura hippie, i "tre giorni di pace e musica rock" portarono sul palco 32 musicisti e band, tra cui Richie Havens (che aprì il concerto venerdì 15 agosto 1969 alle 17 e 07), Ravi Shankar, Arlo Guthrie, Joan Beaz, Santana, Janis Joplin, The Who, Jefferson Airplane, Joe Cocker, The Band, Johnny Winter, Crosby, Still, Nash & Young e Jimi Hendrix (che su sua richiesta chiuse il concerto la mattina di lunedì 18 agosto, intorno alle 9.00).


Sotto ogni punto di vista fu un grandissimo successo. Musicale, perchè quelli che vi passarono lasciarono un segno importante nella storia. Organizzativo, perchè nonostante i numeri inaspettati  (oltre il doppio del previsto) e la pioggia che rese tutto più difficile, le cose funzionarono abbastanza bene, tanto da non degenerare (come era possibile che succedesse). Vi furono due morti: un overdose e uno schiacciato accidentalmente da un trattore. E anche due nascite!

Da segnalare che gli organizzatori, guidati da Michael Lang, erano quattro under 30, che bene esprimevano quel momento storico, in cui rischiare anche economicamente, era necessario. Commercialmente il festival non fu un successo, ma tutto ciò che seguì (dischi e film) resero l'impresa attiva!

Infine fu un successo culturale. Il festival metteva al centro la pace e l'amore, che assieme alla trasgressione e i viaggio (interiori ed esteriori) fecero la grandezza (ancora oggi non interamente compresa) di quel movimento.

Ancora oggi, vedere il film-documentario su Woodstock (uscito nel 1970) emoziona e rende giustizia ad un evento (e ad un periodo storico-culturale) che mai più potrà ripetersi.


mercoledì 7 ottobre 2020

7 ottobre 2006 l'assassinio di Anna Politkovskaja

 «Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola ad essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare.»

 


Il giornalismo, quello serio, ha sempre dato fastidio al potere. La storia, quella relativamente recente, ci consegna centinaia di "martiri della verità", gionalisti che non si sono fermati di fronte alle apparenze o alle verità preconfezionate. Uomini e donne che hanno indagato, lottato, si sono scontrati con il potere che ha reagito nell'unico modo conosciuto ad alcuni, per sconfiggere gli avversari: tappandogli la bocca per sempre.

Vi è poi un'altra parte - purtroppo oggi la maggioranza - di giornalismo che preventivamente si inchina al potente di turno, magari in cambio di uno posto eterno in uno studio televisivo o in una testata di prestigio. In fin dei conti, la vera arma devastante, è la Verità.

Anna Stepanovna Politkovskaja è stata una di quelle donne giornaliste che hanno pagato con la vita la loro caparbietà alla ricerca della verità e dell'informazione corretta.

Quando a 48 anni, nell'ascensore della sua casa, è stata uccisa con 4 colpi di pistola, una Makarov PM, la sua sete di verità è stata spenta per sempre.

Anna, nata a New York, perchè figlia di due diplomatici sovietici ucraini stanzaini alle Nazioni Unite, studia e passa poi la sua vita a Mosca, dove dopo la laurea in giornalsimo, iniziata a lavorare nel 1982.

Come lei stessa ha avuto modo di dire più volte, "l'unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede" e questa è stata la sua responsabilità. Anna ha dedicato una parte importante della sua carriera, della sua vita e la vita stessa a raccontare gli orrori commessi in Cecenia dall'Esercito russo su mandato del Governo Russo. La sistematica violazione dei diritti umani, le torture e gli stupri. Episodi gravissimi che chiamavano in causa direttamente il governo russo e il presidente Putin, in particolare. I reportage di Anna indignavano perchè erano - come si fa nel grande giornalismo d'inchiesta - sempre rigorosi, con testimoni oculari e perfino immagini scattate di nascosto.

Anna secondo le inchieste, che naturalmente non hanno mai trovato gli esecutori materiali e i mandanti, fu uccisa da dei sicari. Il fatto avvenne il 7 ottobre, giorno del compleanno del Presidente Vladimir Putin. Forse, un regalo di compleanno di qualche amico.



venerdì 24 gennaio 2020

24 gennaio 1979: l'assassinio di Guido Rossa

La storia di Guido Rossa non può essere semplificata. Deve per forza di cosa essere contestualizzata in quel contesto storico, ovvero la definitiva rottura del Partito Comunista Italiano con la lotta "oltre il Parlamento" iniziata subito dopo il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro e conclusasi proprio con l'omicidio di Rossa. Una storia travagliata, iniziata sul finire degli anni '60, in un'epoca di stragi, di depistaggi, di parti dello Stato deviate, di paure di totalitalismi e di massonerie che avevano giustificato la posizione "nè con lo Stato nè con le BR" di un pezzo importante del mondo operaio e della sinistra italiana. Il segretario del partito Comunista, Enrico Berlinguer, aveva, dopo l'omicidio di Moro, invitato i militanti a vegliare nelle fabbriche, denunciando ogni sospetto.


Guido Rossa, operaio dell'Italsider di Genova, veneto di rorigine, sindacalista della CGIL e iscritto al PCI, aveva perfettamente interiorizzato questo distacco ideologico, consapevole del danno che la lotta armata aveva oramai prodotto al movimento operaio e più in generale alla sinistra italiana. Guido denunciò  convintamente - non senza un confronto aspro con gli altri delegati di fabbrica -  le attività di un compagno di fabbrica, Francesco Berardi, sorpreso a diffondere materiali di propaganda delle Brigate Rosse.

Un gesto che all'interno della colonna genovese (molto radicale) delle Brigate Rosse è visto subito come un alto tradimento che deve essere punito.
Il 24 gennaio 1979 pochi mesi dopo l'arresto di Berardi un commando di tre persone uccide alle 6.35 e sotto casa Guido Rossa, che all'epoca aveva 44 anni. A sparare sono Vincenzo Guagliardo (arrestato nel 1980, condannato a 4 ergastoli e mai dissociatosi) e Riccardo Dura (ucciso nel 1980 durante l'irruzione nel covo di via Fracchia a Genova), mentre alla guida del furgone vi è Lorenzo Carpi (latitante dal 1980). In realtà dalle ricostruzioni postume Rossa doveva essere gambizzato ma, fu Dura a finirlo.

Per la cronaca Francesco Berardi, condannato a 4 anni di reclusione, si impiccò il 24 ottobre 1979 (esattamente un anno dopo del suo arresto) nel carcere di massima sicurezza di Cuneo.
La figlia di Guido, Sabina, divenuta deputato del Partito Democratico, ha incontrato nel 2005 Vincenzo Guagliardo in carcere. Quando nel 2008 il Tribunale di Sorveglianza ha rigettato la richiesta di libertà condizionale chiesta dai legali di Guagliardo, Sabina si è espressa dicendo "ha fatto 28 anni di carcere, ha pagato. Non c'è alcuna ragione che se nestia ancora in carcere".

Dovremmo tutti avere la forze e la capacità di affrontare quel periodo storico con l'intelligenza e la comprensione di oggi.
 

giovedì 16 gennaio 2020

16 gennaio 1920, il proibizionismo negli Stati Uniti

Il 16 gennaio 1920 segna una data in cui il mondo viene, definitivamente cambiato. Quel giorno infatti entrava in vigore, negli Stati Uniti, il XVIII emendamento alla Costituzione (approvato nel 1919) che vietava il consumo e la produzione di alcolici nel Paese. Il testo in modo scarno recitava "A partire da un anno dopo la ratifica del presente Articolo, e per effetto dello stesso, sono vietati entro i confini degli Stati Uniti la fabbricazione, la vendita e il trasporto - a scopo di consumo - di bevande alcoliche, nonché l'importazione e l'esportazione delle medesime da e per gli Stati Uniti e tutti i territori soggetti alla di loro sovranità". Si trattava di un fatto che sebbene apparentemente di "scarsa" importanza avrebbe inciso fortemente sulle vicende che si sono succedute fino ad oggi. 


Se è vero, che  l'atto di proibizione, dopo aver prodotto notevoli danni, fu ritirato pochi anni dopo (il 5 dicembre 1933), il principio a cui si ispirava "il proibizionismo" sarebbe diventato il dogma su cui si sono basate le politiche di tutti i Paesi del mondo, almeno finora.
Ma, la cosa drammatica prodotta dal quel periodo storico è stato il principio che qualsiasi cosa proibita, che ha un grande mercato, può essere il fulcro di grandiosi arricchimenti.
Se alla proibizione dell'alcol (dovuta ad una forte pressione delle Società per la Sobrietà e da gruppi politici moralisti) si deve la nascita dei "gangster" (tra tutti Alphonse Gabriel "Al" Capone), ovvero criminali che dai traffici illegali di alcol hanno costituito la loro fortuna e il loro potere (coniugando quel termine, anni dopo molto caro ai narcotrafficanti, "denaro o piombo") ed essa si deve anche, per diretta "discendenza", la nascita e la crescita esponenziale del narcotraffico.

Senza grandi giri di parole a partire da quel famigerato 16 gennaio 1920 si è affermato il principio per il quale, maggiormente gli Stati sovrani proibiscono alcune sostanze, maggiormente gruppi criminali organizzati ne ricavano grandi guadagni. Guadagni capaci di conquistare potere e successivamente di incidere sulle politiche. Ad un secolo di distanza il risultato è che le organizzazioni criminali del narcotraffico gestiscono enormi quantità di denaro, controllano Stati (è stato coniato il termine di narco-democrazia) e oramai sono presenti in una grande fetta dell'economia cosiddetta legale.
Mentre loro si arricchiscono (molto) lasciando sul campo morti (dirette e indirette) e devastazioni sociali, i governi investono cifre esorbitanti per controlli, sicurezza e cure. 

La fine del proibizionismo dell'alcol (alle ore 17.27 del martedì 15 dicembre 1933) fece impennare le entrate del Governo (tassazione sugli alcolici), vennero creati quasi un milione di posti di lavoro (industria dell'alcol) e distrusse, da un giorno all'altro, gli affari delle bande criminali
Poco dopo le organizzazioni criminali si gettarono nella commercializzazione di prodotti ancora più vantaggiosi!

giovedì 13 giugno 2019

13 giugno 1979, muore Demetrio Stratos

Efstratios Dimitriu è un nome che dice poco. Infatti Dimitriu era conosciuto con il suo pseudonimo Demetrio Stratos e quando il 13 giugno 1979 morì, a soli 34 anni, era forse all'apice delle sua ricerca che nel corso degli anni aveva trasformato la sua voce in uno strumento musicale.


Era nato ad Alessandria d'Egitto da genitori greci e dopo aver studiato a Cipro  e aver suonato pianoforte e fisarmonica nel 1962, a 17 anni si trasferì a Milano. Si iscrisse ad architettura e nel 1963 fondò il suo primo gruppo musicale.

Dal 1963 al 1970 fu voce e pianista del gruppo beat I Ribelli con cui incide i primi 45 giri (in particolare una pietra miliare dell'epoca beat, il brano Pugni chiusi in cui la voce di Demetrio è evidenziata).

Nel 1972 assieme al batterista Giulio Capiozzo da vita ad uno dei più interessanti gruppi rock italiani, gli Area - International POPular Group. Un gruppo che punta alla ricerca musicale e alla sperimentazione in cui gli stili, soprattutto del free jazz, della musica elettronica e etnica si mischiano a creare quella fusione che pochi gruppi rock progressisti riescono  andare in quegli anni.

Nel 1978 Demetrio lascia gli Area e si dedica allo studio della voce che sempre di più diventava uno strumento su cui ricercatori di varie parti hanno condotto studio. L'ultimo anno della sua vita lo trascorse effettuando importanti collaborazioni internazionali (tra le quali quelle con John Cage).

Nel 1979 gli fu diagnosticata una grave forma di anemia aplastica che richiedeva costose cure e il trapianto di midollo osseo. Molti artisti provarono ad organizzare un concerto, Concerto per Demetrio, a Milano. Morì la sera prima di quel concerto a soli 34 anni, lasciando tutti più poveri di genio.

Demetrio Stratos rappresenta uno di quei musicisti che in pochi anni che ha solcato i palcoscenici e inciso dischi, a lasciato un segno che durerà per sempre.

Sono cresciuto ascoltando la musica anche degli Area, quel timbro di voce, la voce di Demetrio, mi ha semper affascinato e fatto emozionare. Grazie per avermi accompagnato!









 

martedì 2 ottobre 2018

3 ottobre 2013, una tragedia

Era il 3 ottobre del 2013 quando, non molto lontano da Lampedusa, un peschereccio di una ventina di metri salpato dal porto libico di Misurata e con a bordo, stipati come sardine, migrati tutti provenienti dall'Eritrea, fatta eccezione per 6 etiopi, naufragò.


Disperati, che avevano percorso a piedi o con mezzi di fortuna, quasi tutta l'Africa, in condizioni inumane. Avevano sopportato ogni genere di sopruso ed erano, dopo 2 giorni di navigazione, solo a mezzo miglio da quello che per lo rappresentava un sogno: l'Europa. 
Non l'Italia, sia chiaro. Quasi tutti avrebbero tentato di andare ancora più a nord.
Quando i motori si bloccarono, alle 6 e 40 del mattino, non molto distante dalla costa, per attirare l'attenzione delle navi di passaggio l'assistente del capitano accende uno straccio che produsse molto fumo. Si scatenò il panico, molti si spostarono su di un lato dell'imbarcazione e la barca si rovesciò. Rullò tre volte su se stessa e colò a picco. L'imbarcazione si depositò a 46 metri di profondità.

Ufficialmente muoiono quel giorno 368 persone affogate, altre 20 risultano disperse e 155 vengono tratte in salvo quasi esclusivamente da pescherecci e barche private.  La guardia costiera, nonostante la vicinanza, giunge ben un'ora dopo il naufragio.
Tra i morti anche 89 donne e 9 bambini.

Quella mattina, poche ore dopo la tragedia, scrissi sul mio blog Sancara questo post (http://www.sancara.org/2013/10/ora-basta-la-colpa-e-nostra.html) intitolato Ora basta! La colpa è nostra

Ve lo ripropongo, perché a pensarci bene, nulla, purtroppo è cambiato.

L'ennesima strage di disperati. Oggi a Lampedusa, ieri a Scicli e prima ancora nel Canale di Otranto. Disperati, perchè chiamarli immigrati significa dare loro una dignità, che non hanno. La dignità di chi, come fu per noi italiani, pensa di migliorare la propria vita (molti ci riuscirono) lavorando, magari duramente, ove il lavoro non è un miraggio.
Queste persone no. Molte fuggono dalla guerra, dalla miseria, dalla violenza ben sapendo che dove andranno non vi sarà il paradiso, bensì lo sfruttamento, una miseria diversa e spesso anche la morte. Nonostante tutto mettersi nelle mani di banditi, di criminali senza scrupoli spesso protetti, affrontare un viaggio disumano, essere detenuti in quelli che chiamiamo ironicamente "centri di accoglienza" e finire per essere clandestini è ancora meglio che restare.

foto dalla rete
Non vi è giustificazione alcuna per stare a guardare. Quei morti devono urlare, devono destare le coscienze assopite di troppi di noi, distratti dalle beghe giudiziarie di un politico miliardario, dalle liti per accaparrarsi un posto in Parlamento, dall'ultimo infortunio di un calciatore strapagato o dalle bizzarrie di una show-girl capricciosa.

Le responsabilità di questi morti è tutta nostra.

Nostre sono state le politiche coloniali in questi paesi, che li hanno depredati. Nostri sono stati gli appoggi a dittatori e criminali di ogni sorte, che oltre ad arricchire se stessi, hanno sempre fatto i nostri interessi. Nostre sono state le politiche economiche e monetarie che hanno fatto crescere il debito pubblico oltre ogni controllo. Nostre sono le complicità nell'assassinare le poche menti illuminate che potevano cambiare, veramente, le sorti di quei paesi. Nostri sono i capitali delle multinazionali che sfruttano il sottosuolo, le risorse e gli uomini in quei paesi. Nostre sono le armi che che tengono in piedi sanguinosi conflitti. Nostre sono state le politiche delle sviluppo, che hanno prodotto di tutto fuorchè un miglioramento della vita reale della gente. Nostra è quella Comunità Internazionale, incapace di prevenire o gestire le crisi che continuamente si ripetono. Nostri sono i soldi sporchi del sangue di donne, uomini e bambini versato per soddisfare i nostri capricci. Nostri sono gli uomini che comprano minuti di piacere da giovani prostitute sfruttate dal racket della tratta di essere umani. Nostre sono le politiche sull'immigrazione fatte con i piedi e non con la testa.  Nostre sono le responsabilità quando non ci indignamo con forza a fronte di dichiarazioni razziste e xenofobe.

Queste morti, ha ragione Papa Francesco, sono una vergogna. Una vergogna per tutti noi, sono un pugno allo stomaco, sono il frutto della nostra inazione, del nostro torpore.
Abbiamo permesso per troppi anni che le politiche sull'immigrazione fossero centrate solo sul contenimento. Come se fosse possibile fermare l'acqua con un sacchetto di sabbia. Abbiamo ignorato che la Somalia è da 20 anni senza un governo, che in Etiopia ed Eritrea si muore di fame, che nella Repubblica Democratica del Congo vengono stuprate migliaia di donne al giorno, che in Nigeria a causa del "nostro" petrolio abbiamo distrutto un ecosistema unico al mondo, che in Siria prima ancora che per il gas, la gente moriva per una guerra sanguinosa, che in Libia dopo le bombe serviva dell'altro o che il Sahel non ha più acqua.

,Provate a chiudere gli occhi. Immaginatevi si essere da giorni in un barcone affollato, come quello della foto, dove perfino respirare è difficile. Immaginate di essere quasi a terra e che qualcuno vi spinga in acqua. Voi non sapete nuotare. Eppure vi spingono, perchè la vostra vita valeva qualcosa solo prima del viaggio.
Questo accade, ogni giorno. Questo accadeva agli schiavi secoli fa, durante la tratta, in più vi erano solo le catene.

Ora immaginate che sulla barca vi siano i vostri figli, i vostri mariti, le vostre mogli e che il colore della pelle non sia nera, ma bianca. Cambierebbe qualcosa?